Una delle problematiche più complesse da gestire quando si programmano attività fisiche per un atleta o un cliente è Il recupero.
In palestra molte schede di allenamento vengono scritte con noncuranza: non si presta attenzione ad un parametro fondamentale quale il tempo di riposo tra una serie e l’altra o tra serie che interessano gruppi muscolari differenti.
D’altronde il metodo predicato dai gestori dei centri sportivi recita:“Il cliente in un’ora deve terminare l’allenamento”.
Questa è una delle raccomandazioni più gettonate tra i proprietari di palestre. All’interno delle sale, sono previsti recuperi brevi, di appena un minuto.
Perché si calcola meticolosamente il tempo trascorso a svolgere gli esercizi. Le ragioni vanno cercate nell’abitudine all’offerta del mercato: gli utenti sanno ormai che una lezione di personal è solitamente da 60 minuti e che una scheda sarà strutturata classicamente, ovvero con delle serie interrotte da un intervallo di un minuto di pausa. Così poco spazio per riprendere fiato, forse, per ingannare la noia del restare immobili?
Tutto. Per meglio intenderci: cambia l’obiettivo finale del programma.
Recuperare un minuto può andare bene se abbiamo come obiettivo quello di lavorare in lattacido e, se utilizziamo carichi che sono almeno del 75% del massimale: questo sembrerebbe incentivare maggiormente il volume muscolare (in gergo tecnico la cosiddetta ipertrofia muscolare, o in linguaggio di quelli grossi “fare massa”).
Attenzione però ad aumentare troppo il carico, perché allora ogni cosa va ricalcolata: se proviamo ad eseguire un massimale, il recupero di un minuto risulta insufficiente per poter ripetere l’esercizio alla medesima intensità. Perché avviene questo? Perché sarà necessario riprendersi non soltanto da un punto di vista organico-muscolare, legato cioè all’ATP, ma anche a livello neurologico.
L’affaticamento che si produce ad intensità elevate è un affaticamento che va a carico dei motoneuroni i quali iniziano “a stancarsi” per la frequenza di scarica molto elevata.
Messa in termini più comprensibili, è come se una persona battesse le mani ogni secondo (il battito di mano lo paragoniamo alla frequenza di scarica dei motoneuroni): aumentando l’intensità del carico, il battito di mani diventerà più frequente fino al punto in cui la rapidità del movimento renderà difficile recuperare dalla fatica fatta.
Nel caso appena descritto, la pausa dovrebbe prolungarsi ben oltre le schede più diffuse nelle palestre che: parliamo di recuperi che possono superare i 5 minuti e, per certi atleti, dilatarsi sino a 10. Un’altra situazione ancora è quella degli sportivi di medio-alto livello: questi soggetti potrebbero permettersi la libertà, sotto suggerimento dell’allenatore, di ripetere un’alzata “a sensazione personale”. Successivamente verrà richiesto, per ragioni di adeguamento al regolamento delle competizioni, di ripetere un’alzata massimale entro i 3 minuti: ed ecco l’allenamento più specifico.
Il corpo, a seconda di ciò che fa, ha bisogno di un determinato recupero, che varierà in relazione all’obiettivo finale.
Per fare un esempio: chi allena principalmente la resistenza lattacida, applicherà recuperi incompleti, ovvero il noto minuto di cui abbiamo già discusso. In quanto commisurato al tipo di allenamento. Ricordiamoci però che ad ogni pausa corrisponderà l’adattamento specifico del nostro atleta. Possiamo dire che il soggetto si abituerà allo schema a cui sarà sottoposto e questo si trasformerà in una specializzazione su un determinato recupero ed intensità.
Questo non significa essere specializzati su altre componenti ed essere allo stesso tempo bravo su altre percentuali di carico.
Quando vi propongono una scheda di allenamento, chiedete sempre secondo quali criteri è stato calcolato il recupero. Ancora oggi si ha l’idea che tanto la scelta di un minutaggio rispetto ad un altro sia indifferente.
Ora sapete che la questione è più complessa se volete ottenere determinati obiettivi.
Il recupero non è opzionale nè tantomeno trascurabile: è fondamentale per indirizzare l’allenamento.