Grassofobia e Fat Shame: lo stigma del grasso corporeo. Ci sono libri che cambiano completamente le prospettive e danno una visione alternativa e maggiormente consapevole della società in cui viviamo. Alle volte molte idee non sono davvero nostre, ma riflessi di una società che attraverso la pubblicità, modelli fisici e pensieri dominanti influenzano la nostra idea di bello e il nostro concetto di sano.
Già a partire dal XIX secolo stava cambiando l’idea che i corpi formosi fossero appaganti, prima simbolo della prosperità e della ricchezza, e via via stava diventando un simbolo dall’accezione negativa, dell’incapacità di autocontrollo e avrebbe influenzato per sempre il nostro ideale estetico. Tutto questo ha contribuito ad imporre un nuovo canone che sarebbe arrivato fino ad oggi e avrebbe alimentato un’industria che ruota intorno a prodotti dimagranti e servizi di chirurgia estetica. In questo articolo proseguiamo il discorso legato all’estetica e ad un fenomeno che oggi ha un nome: grassofobia.
Letteralmente significa “paura del grasso” e s’intende la discriminazione e il sentimento di disprezzo che si ha nei confronti del grasso. La grassofobia ha una storia lunga quasi due secoli, nonostante la sua massima diffusione si fa coincidere con la vendita di prodotti dimagranti a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Già nel 1800 si iniziava a parlare di grasso, salute e canone estetico. Ci sono vignette del 1800 che ritraggono persone grasse ridicolizzate per indicare che “i nuovi ricchi” non erano in grado di gestire il loro benessere e ne perdevano il controllo. Un primo sistema discriminativo che era una vera e propria critica attuata dai nobili nei confronti della nuova borghesia.
I giornali e l’avvento della televisione hanno imposto un canone estetico che non è universale, ma è molto presente nei paesi industrializzati. Il fisico snello, privo di grasso, longilineo e tonico è la descrizione di quanto è socialmente accettato, ma non è necessariamente un canone universale, specie se lo mettiamo in relazione con altri paesi del mondo.
Da diverse decadi il grasso corporeo è diventato un problema sanitario, alimentando ulteriormente l’accezione negativa che si da al grasso corporeo, senza che ci si interroghi se essere “meno in carne” equivalga automaticamente sull’essere più sani.
Già nell’articolo su dieta e body shaming abbiamo parlato di quanto l’essere in forma e l’ossessione per un corpo magro e muscoloso possa celare disturbi del comportamento alimentare ed essere esattamente il prodotto di una società che ci vuole in un certo modo, alimentando frustrazioni, senso di inadeguatezza e minando la nostra autostima. Alcuni sembrano non aver ben compreso che il movimento di protesta della body positivity fa riferimento all’accettarsi nella propria totalità e nella diversità, nonostante alcuni siano convinti che sia un elogio dell’obesità e i commenti sui social network ne sono la prova. Le reazioni arrivano puntuali anche da parte di coloro che dovrebbero, sull’idea di salute, avvicinare le persone a svolgere attività fisica e ad avere pattern dietetici che permettano di rimanere sani nel tempo.
Calcolare maniacalmente le calorie, pesarsi tutti i giorni, mirare a canoni estetici che non sono conformi a chi siamo non è sano e questi comportamenti vengono adottati anche dai paladini che dovrebbero promuovere stili di vita corretti. In alcuni casi sono veri e propri disturbi del comportamento che si attuano attraverso il controllo del proprio corpo e non si pensi che questo genere di problematiche siano appartenenti solamente a chi esce dal pensiero estetico dominante. Spesso proprio coloro che sono portatori di un fisico asciutto, snello e privo di grasso sono il prodotto di una società che non accetta l’invecchiamento così come non accetta un quantitativo di grasso anche minimo, che copra la famosa tartaruga. A riprova di tutto questo basti pensare a quanti si rifugiano nell’utilizzo di rimedi dagli slogan “miracolosi”, creme che promettono di fermare l’invecchiamento o di far dimagrire in maniera localizzata. Il tutto ruota intorno al concetto che il grasso non è corretto, ma su questa idea radicata si giustificano comportamenti che sono la rincorsa forsennata verso un’oasi che non esiste.
Lo slogan della salute, portato avanti da alcuni addetti ai lavori, diventa spesso motivo per azioni denigratorie vere e proprie, quasi ad elevarci a giudici morali della vita altrui. I commenti negativi che si susseguono sotto foto di persone curvy sono la massima espressione di come si delegittimi l’altrui persona e le sue scelte di vita sottolineando la sua inadeguatezza. Perché ancora oggi si pensa che un corpo più magro sia automaticamente anche più in salute, quando il discorso è molto più complesso di così.
Quando decidiamo di nascondere quelli che gli altri definiscono “difetti” è perché siamo continuamente soggetti al giudizio altrui e con cui facciamo i conti ogni secondo della nostra vita. ll paradosso diventa tanto più evidente quando gli stessi che si occupano di benessere psico-fisico sono i primi ad innescare comportamenti denigratori verso coloro che ritengono inadeguati all’ambiente in cui operano.
La forma fisica diventa una manifestazione dell’ansia che possediamo riguardo alla presenza del grasso e alla maniacalità con cui alcuni guardano il girovita e adottano comportamenti che diventano terreno fertile per i disturbi alimentari che hanno radici psicologiche.
Articoli di giornale che sottolineano i rischi dell’obesità sono il massimo esempio di come l’opinione pubblica venga influenzata attraverso diversi aspetti e uno di questi è la salute. Nel libro di Farrell vi è una domanda interessante che apre una serie di riflessioni, aperte dalla Health At Every Size (HEAS):
Da “come rendiamo le persone magre?” a “come rendiamo sane le persone grasse?”
Una domanda e un cambio di paradigma interessante che viene rinforzato anche dallo studio di Linda Bacon, sempre riportato all’interno del libro Fat Shame sulla grassofobia.
In uno studio di due anni di durata, un gruppo di donne obese venne diviso in due gruppi distinti. Il primo gruppo seguiva una dieta restrittiva e un percorso di attività fisica. Il secondo gruppo seguiva una dieta sana, si attuava un percorso di motivazione per svolgere regolare attività fisica e si parlava spesso del rapporto con il proprio corpo. Quale dei due gruppi ottenne più risultati? Il secondo. I membri del primo gruppo non riuscirono a completare il percorso e ripresero i chili persi. Nel secondo caso, invece, si cercò di incidere sulle abitudini e sugli stili di vita e la cosa più interessante è che migliorarono tutti gli indici senza che ci fosse un incisivo calo di peso.
Incidere sugli stili di vita è l’obiettivo primario per chi si occupa di salute, nutrizione ed attività motoria.
Slegarci dal concetto del peso è difficile perché ci hanno educato che il “socialmente accettato” è spesso un canone di bellezza che per molti diventa irraggiungibile e alimenta timori, ansie e problematiche psicologiche che sono tutto fuorché vivere in modo sano. Quando l’attività fisica si slegherà dal concetto di “bello” e abbraccerà il concetto di “sano” si farà un passo in avanti.
Nonostante alcuni siano convinti che la body positivity sia uno slogan per elogiare l’obesità, in realtà tratta aspetti ben più profondi e complessi. Il primo tra tutti è che il peso non è tutto. In secondo luogo è che l’aspetto di una persona non può di certo essere preso di mira per diventare motivo di denigrazione o, peggio ancora, isolamento sociale, con tutto quello che significa dal punto di vista relazionale, lavorativo e sanitario. Il terzo è che qualsiasi percorso che porti verso la salute (e anche potenzialmente verso una cura della propria forma fisica maggiore) parte sempre, prima di tutto, da una situazione di rispetto e di amore per il proprio corpo.
REFERENZE IMMAGINI (copyright free):
Photo by Noah Buscher on Unsplash (foto di copertina)
Photo by Julia Taubitz on Unsplash (foto nell’articolo)
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