Se ci pensiamo, molte professioni hanno un codice: quello che in gergo si chiama codice deontologico.
Questo è vero per diversi mestieri, ma non certo per il personal trainer. Questo professionista non ne possiede uno o, meglio, non uno codificato. Ogni allenatore decide il proprio.
Ad esempio avrà un codice ad hoc chi decide di svendere le proprie prestazioni perché la partita IVA (quella sconosciuta) non sa nemmeno cosa sia. Esattamente come non sa cosa siano le tasse ad essa legate (TASSE? Cosa sono?).
Ma anche chi decide di dare del “tu” a chiunque perché la palestra è un posto familiare, un luogo dove le persone fingono di essere tutte in confidenza per la condivisione di una passione comune: l’estraniazione dal mondo reale. Una realtà dove conta l’immagine riflessa allo specchio, dove il volume dei muscoli conta molto di più del proprio intelletto e dell’effettiva preparazione.
Ma entriamo insieme nel magico universo dei personal trainer.
Categoria a cui appartengo (anche se non dovrei. Purtroppo ricado sotto l’etichetta “secchi” e forse avrei dovuto optare per qualche “prodottino” dell’ultimo minuto che ho sempre rifiutato). Ogni giorno di più penso che questa professione somiglia ad una recita. Ecco i protagonisti: la finzione di chi crede di sapere tutto e si reputa nel linguaggio romanesco “er meio”; poi i falsi modesti, che però guardano tutti dall’alto in basso.
Perché mai in questo mare di attori e comparse dovrebbe esserci un codice deontologico?
La professionalità che il trainer dovrebbe erogare dovrebbe esser una risposta. In fondo trattiamo l’organismo e il suo funzionamento e ciò ci accosta alla medicina: non troviamo cure, ma trattiamo qualcosa di altrettanto importante, ovvero, la prevenzione.
Prevenire significa evitare che il cliente si infortuni. Potrebbe essere il “primo principio del personal trainer”: “Non nuocere”. Questo è tanto scontato quanto dimenticato in tutti i centri sportivi, dove il peso sollevato la fa da padrone ancor più del buon senso.
Racconto un breve aneddoto.
Alcuni giorni fa sono entrato in una palestra e ho richiesto una lezione di personal: tutti dovremmo farlo ogni tanto, per metterci in discussione e vedere nella pratica come lavorano i colleghi. È un’ottima occasione di imparare con umiltà qualcosa. Quello che ho visto però era una persona pagata con gli occhi fissi sul cellulare. Curare il suo cliente non compariva tra gli status di facebook. Risultato? Ho avuto l’ennesima conferma del perché la nostra professione non venga presa sul serio.
A questo si aggiunge la poca voglia del personale delle palestre nel prestare attenzione al cliente: sarà per la paga “da fame” o per i mancati pagamenti estivi delle palestre (con proprietari che invece girano con il porsche); fatto sta che sono entrato in un ambiente dove sembrava di disturbare invece di essere accolti.
Il trainer in questione non spiegava nulla, anzi, era più impegnato a guardare se stesso allo specchio: le rare informazioni che mi forniva si limitavano alla regolazione del sellino e ad affermazioni come “hai visto quella? Madò che topa!”. Tutto per la modica cifra di 40 Euro per un’ora di lezione. Non sto discutendo il prezzo, anzi (un lavoro professionale dovrebbe essere pagato molto di più), ma le modalità adottate in relazione alla paga oraria. Non mi stupisce che molte persone decidano di non chiedere un personal: se il servizio erogato è questo, meglio guardare un video-tutorial.
Detto questo, cerchiamo di individuare il secondo principio. Per farlo, ecco una serie di regole importanti:
Perché invece non provare a concentrarsi sulla tecnica, specie se il cliente volutamente la sbaglia, per mettere alla prova l’approccio didattico. Una lezione che è parsa più una chiacchierata tra amici: “Che fai di bello nella vita? Sei bello “secco” cavolo! Meglio però di quei ciccioni che frequentano la palestra!” – il tutto mentre si ammirava allo specchio.
Ah beh, mi sono sentito sollevato dopo tanta professionalità.
Mi sono guardato intorno per capire se c’erano delle telecamere (forse stavo vivendo una candid camera e nessuno me lo aveva detto).
Alla domanda “che fai bello?” – nel caso qualcuno si stesse domandando quale fosse stata la mia risposta – io: “niente di che: leggo, corro (cavolo, non dovevo dirlo!) e poi nel tempo che mi rimane faccio qualche lezione privata”. Lui stranamente non mi ha chiesto che tipo di lezioni private, a dimostrazione di quanto gliene fregasse.
“Dobbiamo ripartire”- mi ha detto.
Beh, qualcosa l’ha fatto: mi ha indicato quando dovevo riprendere la serie senza neppure guardare il cronometro. Un vero campione.
Il climax è stato raggiunto col passaggio di un collega: “smettila di far finta di lavorare” e gli sorride (su questo aveva pienamente ragione, nella sua ironia).
Lui, sempre dimenticandosi di me, ad alta voce: “Che palle guarda, vorrei dormire una settimana. Pensa tu a lavorare che non fai un c***o dalla mattina alla sera”.
Una volta che il collega si allontana, sempre urlando, dice: “Oh, comunque quell’altro non è a posto: hai visto che esercizi propone?” – Ho capito dopo che si riferiva al collega nella sala di fianco che stava facendo lezione.
Una storia che ha un lieto fine: ho scoperto una palestra da evitare.
Ma c’è anche un Post Scriptum. Sono io che, per provocazione, domando: “senti, ma per una dieta, avete un nutrizionista o qualcuno che potreste consigliarmi?”
Lui: “Ci siamo noi. Beh, si vede che non mangi e questo te lo dico anche senza farti una dieta”.
Non dirò come è proseguita la discussione (alcuni dettagli meglio ometterli perché rischio una colica renale solo a pensarci).
L’ora arriva al suo termine. Nel cercare di fissarmi un ulteriore appuntamento dico che sono in partenza per le ferie e che mi sarei fatto sentire al mio rientro.
Esco dal paese dei balocchi e torno al mondo reale, fingendo che fosse stato solo un brutto sogno. Ma il mio portafogli testimonia, tipo un pizzicotto, che tutto è successo veramente.