Imbattendomi in un post di facebook non ho potuto che notare la richiesta di un ragazzo. Un mio collega (frustrato, senza ombra di dubbio) che si lanciava in un appello verso tutta la categoria. Quello che rivendicava era un netto cambio di direzione. Mi esprimo direttamente usando le sue parole:
“Perché, invece di prendercela con i fisioterapisti non ce la prendiamo con chi organizza i corsi di formazione? Così non avremo più competitor”.
(La mia espressione è stata più o meno questa):
Leggendo post di questo tipo, posso pienamente giustificare i motivi per cui la nostra professione non venga iscritta ad un albo (e, a questo punto, potrei persino desiderare che non venga mai costituito un ordine di tal genere, considerando chi ne farebbe parte).
Prima osservazione sulle righe pubblicate, riguarda la nozione stessa di “competitor”: se come tali, infatti, individuiamo chi possiede una formazione della durata di un weekend, sbagliamo in partenza.
Ho cercato allora di comprendere il motivo che spinge alcune persone a identificare per forza un nemico esterno. Ma resto fermo sulla mia posizione: se si concentrasse la stessa energia impiegata nel combattere un ipotetico antagonista nel forgiare invece la propria figura professionale, allora la competizione si articolerebbe in maniera diversa.
Per essere un valido elemento che può resistere nel mercato del lavoro, si deve insistere sulle proprie competenze e non sul de-responsabilizzarsi, scaricando la fonte di eventuali insuccessi su un prossimo fittizio.
Ed ecco che il corso di formazione diventa indispensabile e ancora di più lo è in una professione come quella del personal trainer, in quanto non normata. L’aggiornamento costante è uno stimolo a restare sempre competitivi e fare la differenza sul mercato.
E ora torniamo al commento che ha scatenato questa mia riflessione: il forte rammarico che ha provocato mi ha spinto a credere che ci si crogioli sempre più nella ricerca di un “nemico” da combattere, quando forse il vero ostacolo è da ricercare dentro di sé.
Chi poi ha risposto, lo ha fatto in toni e termini che hanno solo confermato lo stato diffuso di frustrazione tra tutti coloro che attendono un lavoro piovuto dal cielo. Dato che non avverrà mai, è più semplice trincerarsi contro un bersaglio condiviso: in questo caso, i corsi dei fine settimana.
Bisogna tenere presente una grande verità: se non esistessero i corsi dei weekend, sparirebbe con essi la professione del personal trainer. Ciò risulta ancora più evidente di fronte all’analisi di alcuni dei commenti più estremi, che certo non denotano una profonda padronanza della materia.
È ovvio poi che, chi sceglie una professione ,dovrebbe informarsi sui pro e i contro della propria decisione.
Non si deve demonizzare gli organizzatori di tali corsi presi di mira: chi li gestisce, infatti, non è né un farabutto né tantomeno fuorilegge. Non esiste, a pensarci meglio, una legge che impedisca di erogare formazione a terzi.
È bene sottolineare inoltre, come il problema non sia chi forma, ma chi assume. La formazione, divulgativa o scientifica che sia, è giusto che sia aperta a tutti.
Alla luce di tutti questi elementi, inviterei a fare come prima cosa un esame di coscienza su noi stessi, poiché evidentemente non è così netta la differenza tra chi possiede il titolo universitario e chi non lo possiede.
Allora cosa fare? Un consiglio utile, quanto scontato: sarebbe meglio comprare qualche libro in più e scrivere qualche commento di meno; iniziare a dimostrare l’effettivo gap che esiste tra chi è laureato nel nostro ambito e chi non lo è (ma sappiamo bene quale sarebbe la risposta nella maggior parte dei casi giusto?).
Inoltre il percorso di laurea in scienze motorie è strutturato non per formare dei futuri istruttori di palestra (lo dimostra il piano carriera) quanto piuttosto per fornire nozioni di motricità e movimento: questo è il campo dove dovremmo fare la reale differenza, piuttosto che nelle sale pesi (ed è proprio in questo che bisogna farsi riconoscere, non nel far eseguire un curl con manubri).
A seguire a queste osservazioni in stile “non esistono più le mezze stagioni”, poi subentrano i soliti commenti che denigrano l’Italia e lodano l’estero. Attenzione. Perché, anche in molti paesi esteri, la situazione è analoga (su questo, forse, bisognerebbe informarsi meglio).
E poi, come in tutte le professioni, esiste una selezione naturale. Il titolo non ci dà il diritto di essere considerati esperti, così come non corrisponde esattamente alla nostra preparazione. Il compito di valorizzare le nostre competenze spetta a noi in primis. Noi dobbiamo metterla in luce (a patto di possederla).
Chi afferma che i corsi debbano essere solo per laureati, esprime un’opinione personale che però non determina automaticamente che un corso aperto a tutti dia nozioni superficiali e sommarie.
Non sono gli studenti a fare il corso. I programmi didattici sono stati pensati già riferendosi ad un target selezionato: in partenza è bene evidente chi ha i requisiti per poterlo seguire e chi no (nonostante alcuni egocentrici siano convinti del contrario).
Ne sono la dimostrazione molti corsi Corebo, dove quasi l’85% dei partecipanti sono laureandi o laureati e non per “darsi un tono”. La scrematura sta avvenendo per la difficoltà di molte tematiche proposte (per gli scettici cronici non sono percentuali tirate a caso).
E anche a questo proposito ci terrei a fare una puntualizzazione: se qualche non laureato è abbastanza preparato per meriti personali, è giusto che possa partecipare ai percorsi di formazione avanzata (sempre nell’ottica che ad oggi non abbiamo una norma che lo impedisca).
Infine, un ultimo suggerimento sentito: lasciatevi ammaliare dalle conoscenze che i corsi erogano per accrescere la vostra (nostra) professionalità, piuttosto che dal marchio dell’attestato.
È vero che la laurea resterà sempre il titolo per eccellenza, ma allo stesso modo è chiaro che la differenza nella professione la facciamo noi stessi e nessuna certificazione potrà sostituirsi ad un lavoro ben fatto.